Decrescita e convivialità Abbasso lo sviluppo sostenibile! Viva la decrescita conviviale!

di Serge Latouche

“ Non ci possono essere molti dubbi: lo sviluppo sostenibile è una delle ricette più tossiche.”
Nicholas Georgescu-Roegen
(Corrispondenza con J.Berry, 1991)

L’ossimoro – o antinomia – è una figura retorica che consiste nella contrapposizione di due termini contraddittori, come «l’oscuro chiarore», così caro a Victor Hugo. Questo procedimento creato dai poeti per esprimere l’inesprimibile è sempre più utilizzato dai tecnocrati per far credere all’impossibile. Allo stesso modo, una guerra pulita, una mondializzazione a misura d’uomo, un’economia solidale o sana, ecc.
Lo sviluppo sostenibile è una di queste antinomie.
Già nel 1989, John Pezzey della Banca Mondiale aveva recensito 37 diverse accezioni del concetto di sustainable development 2. Il solo Rapporto Brundtland (Commissione Mondiale 1987) ne conterrebbe sei . François Hatem, che nello stesso periodo ne elencava 60, propone di classificare le principali teorie attualmente disponibili sullo sviluppo sostenibile in due categorie, eco-centrica ed antropocentrica, a seconda che si propongono come obbiettivo essenziale quello della vita in genere (e quindi di ogni essere vivente, perlomeno di quelli che ancora non sono condannati) oppure quello del benessere dell’uomo.

Sviluppo sostenibile o come far durare lo sviluppo

Esiste dunque un’apparente divergenza sul significato di sostenibile. Per alcuni, lo sviluppo sostenibile è uno sviluppo che rispetta l’ambiente. L’accento viene quindi posto su come preservare l’ecosistema. Sviluppo significa, in questo caso, benessere e qualità della vita soddisfacenti, senza interrogarsi più di tanto sulla compatibilità dei due obiettivi, sviluppo e ambiente. Questo atteggiamento è ben rappresentato dai militanti delle varie associazioni e dagli intellettuali umanisti. Farsi carico dei grandi equilibri ecologici deve arrivare fino al punto da rimettere in discussione certuni aspetti del nostro modello economico di crescita, e addirittura del nostro modo di vivere. Questo può implicare la necessità di inventare un nuovo paradigma di sviluppo (un altro! Ma quale? Non si sa). Per altri, l’importante è che lo sviluppo in quanto tale possa durare all’infinito. Questa posizione è quella degli industriali, della maggior parte dei politici e della quasi totalità degli economisti. A Maurice Strong che il 4 aprile 1992 dichiara: “Il nostro modello di sviluppo, che conduce alla distruzione delle risorse naturali, non è un modello valido. Dobbiamo cambiarlo”, fanno eco le affermazioni di Georges Bush (senior): “Il nostro livello di vita non è negoziabile”. Dello stesso avviso, Clinton dichiarava a Kyoto, senza mezzi termini: “Non firmerò nulla che possa nuocere alla nostra economia”5. Come sappiamo, Bush junior ha fatto di meglio …..

Lo sviluppo sostenibile è come l’inferno, è disseminato di buone intenzioni.

Non mancano infatti, esempi di compatibilità tra sviluppo e ambiente che gli conferiscono credibilità. E’ chiaro che la salvaguardia dell’ambiente non entra necessariamente in conflitto con gli interessi individuali e collettivi degli agenti economici. Un dirigente della Shell, Jean-Marie Van Engelshoven, può dunque dichiarare: “Il mondo industriale dovrà saper rispondere
alle aspettative attuali, se vuole continuare in maniera responsabile a creare ricchezza in futuro”. Jean-Marie Desmarets, Direttore Generale della Total, non parlava diversamente prima del naufragio della Erika e l’esplosione della fabbrica di fertilizzanti chimici di Tolosa….Con un certo senso dell’umorismo, i dirigenti della BP hanno deciso che la loro sigla
non doveva più leggersi «British Petroleum», ma «Beyond Petroleum» (oltre il petrolio)…
La concordanza degli interessi può in effetti realizzarsi sia nella teoria che nella pratica. Vi sono industriali convinti della compatibilità degli interessi della natura e dell’economia. Il Business Council for Sustainable Development, composto da 50 dirigenti di grandi imprese, riuniti attorno a Stephan Schmidheiny, consigliere di Maurice Strong, ha pubblicato un
manifesto presentato a Rio de Janeiro poco prima dell’apertura della conferenza del 1992: Invertire la rotta, riconciliare lo sviluppo dell’impresa e la protezione dell’ambiente. «Come dirigenti d’azienda, proclama il manifesto, aderiamo al concetto di sviluppo sostenibile, quello sviluppo che permetterà di rispondere ai bisogni dell’umanità senza compromettere le possibilità delle future generazioni». E’ questa infatti la scommessa dello sviluppo sostenibile. Un industriale americano esprime il concetto in maniera molto più semplice: «Vogliamo che sopravvivano allo stesso tempo lo strato di ozono e l’industria americana».

Sviluppo tossico

Vale la pena di andare a vedere più da vicino, ritornando sui concetti, e verificare se la sfida possa ancora essere raccolta. La definizione di sviluppo sostenibile così come appare nel Rapporto Brundtland, tiene conto unicamente della durata. Si tratta infatti di «un processo di trasformazione attraverso il quale lo sfruttamento delle risorse, l’orientamento degli investimenti, i cambiamenti tecnici ed istituzionali, si trovano in armonia e rafforzano il potenziale attuale e futuro dei bisogni dell’uomo». Non bisogna però farsi illusioni. Non è l’ambiente ma prima di tutto lo sviluppo che si vuole preservare. Alcuni imprenditori ecologisti
parlano addirittura di «capitale sostenibile», il colmo dell’ossimoro!.
E qui è la trappola. Il problema dello sviluppo sostenibile non è tanto il termine sostenibile che è piuttosto una bella espressione, quanto il concetto di sviluppo che è decisamente un «termine tossico». Infatti sostenibile significa che l’attività umana non deve
creare un livello di inquinamento superiore alla capacità di rigenerazione dell’ambiente. Questo non è altro che l’applicazione del principio di responsabilità del filosofo Hans Jonas: «Agisci in modo tale che gli effetti della tua azione siano compatibili con la permanenza di una vita autenticamente umana sulla terra».
Tuttavia, il significato storico e pratico di sviluppo, legato al programma della modernità, è fondamentalmente contrario al concetto di sostenibilità così concepito. Possiamo definire lo sviluppo come un’impresa che mira a trasformare in merce i rapporti degli uomini tra loro e con la natura. Si tratta di sfruttare, valorizzare, trarre profitto dalle risorse naturali e umane.
La «mano invisibile» e l’equilibrio degli interessi ci garantiscono che tutto va per il meglio, che siamo nel migliore dei mondi possibili. Per quale motivo preoccuparsi? La maggior parte degli economisti, liberali o marxisti che siano, sono a favore di una definizione che permetta allo sviluppo di durare nel tempo. Così l’economista marxista Gérard d’Estanne de Bernis dichiara:
«Non tratteremo qui di semantica e non ci domanderemo neppure se l’aggettivo “sostenibile” aggiunga o meno qualche cosa alle definizioni classiche di sviluppo, teniamo presente i nostri tempi e parliamo come tutti quanti. […] Certamente, sostenibile non rimanda al concetto di “lungo” ma di “irreversibile”. In questo senso, qualunque sia l’interesse delle esperienze prese
in esame, il fatto è che il processo di sviluppo di paesi come l’Algeria, il Brasile, la Corea del Sud, l’India o il Messico non si è dimostrato “sostenibile”: le contraddizioni non controllate hanno spazzato via i risultati degli sforzi compiuti e hanno portato al regresso».
Effettivamente, se lo sviluppo è definito da Rostow come «self-sustaining growth» (crescita auto-sostenibile), l’aggiunta dell’aggettivo sostenibile al termine sviluppo diventa inutile e costituisce un pleonasmo. Questo è ancora più evidente con la definizione di Mesarovic e Pestel. Per loro, è la crescita omogenea, meccanica e quantitativa che è insostenibile, ma
una crescita «organica» definita dall’interazione degli elementi sulla totalità, è un obiettivo possibile. Ora, dal punto di vista storico, questa definizione biologica è proprio quella di sviluppo! Le sottigliezze di Herman Daly che tenta di conciliare lo sviluppo con una crescita nulla, non trovano conferma né nella teoria né nella pratica. Come nota Nicholas Georgescu-Roegen: «Lo sviluppo sostenibile non può in alcun caso essere separato dalla crescita economica. […] In verità, chi ha ma i potuto pensare che lo sviluppo non implichi necessariamente una qualche crescita?».
Possiamo dire, in conclusione, che se si affianca l’aggettivo “sostenibile” al concetto di sviluppo, è chiaro che non si intende mettere veramente in discussione lo sviluppo realmente esistente, quello che domina il pianeta da due secoli, ma che si pensa al massimo di aggiungervi una componente ecologica. E questo indubbiamente non è sufficiente a risolvere i
problemi.

La crescita zero non è sufficiente

Di fatto, il carattere sostenibile non rimanda allo sviluppo «realmente esistente» ma alla riproduzione. La riproduzione sostenibile ha regnato sul pianeta più o meno fino al XVIII secolo; è ancora possibile trovare tra gli anziani del terzo mondo degli «esperti» in riproduzione sostenibile. Gli artigiani e i contadini che hanno conservato gran parte delle tradizioni ancestrali nel modo di fare e di pensare, vivono molto spesso in armonia con il proprio ambiente; non sono predatori della natura 14. Nel XVII secolo Colbert, promulgando i suoi editti sulle foreste, regolamentando i tagli dei boschi per assicurarne la ricostituzione,
piantando quelle querce per fornire alberi alle navi che ancora oggi ammiriamo, si dimostra un esperto in «sustainability». E’ evidente che questo genere di misure vanno contro la logica commerciale.
Ecco, si dirà, uno sviluppo sostenibile; ma allora bisognerebbe dire lo stesso anche di tutti quei contadini che piantavano nuovi ulivi e nuovi fichi dei quali non avrebbero mai visto i frutti.
Lo facevano però pensando alle future generazioni e questo senza essere costretti da alcun regolamento, ma semplicemente perché i loro genitori, i loro nonni e tutti coloro che li avevano preceduti avevano fatto lo stesso. Ormai, non esiste più questo tipo di riproduzione sostenibile.
Ci vuole tutta la fiducia degli economisti ortodossi per pensare che la scienza del futuro risolverà tutti i problemi e che la sostituibilità illimitata della natura con l’artificio sia possibile.
Possiamo veramente, si chiede Mauro Bonaiuti, ottenere uno stesso numero di pizze diminuendo la quantità di farina ed aumentando il numero dei forni (o dei pizzaioli)? E anche nella fiducia di poter scoprire nuove fonti di energia, è forse ragionevole costruire «grattacieli senza scale né ascensori sulla base della sola speranza che un giorno avremo la meglio sulla
legge di gravità?».
Contrariamente a quanto auspica l’ecologismo riformista di Herman Daly o di René Passet, lo stesso stato stazionario e la crescita zero non sono né possibili né desiderabili…«Possiamo riciclare il metallo delle monete usate, ma non le molecole di rame
disperse durante l’utilizzo delle monete stesse»18. Questo fenomeno, che Nicholas Georgescu-Roegen ha battezzato la «quarta legge della termodinamica», può forse essere discutibile in teoria, ma non dal punto di vista dell’economia concreta.
Dalla conseguente impossibilità di una crescita illimitata non risulta, a suo parere, un programma di crescita nulla, ma quello di una decrescita necessaria. «Non possiamo» dice, «produrre frigoriferi, automobili o aerei a reazione “migliori e più grandi” senza produrre anche rifiuti “migliori e più grandi”». Concludendo, il processo economico è di natura entropica.
«Il mondo è finito» nota Marie- Dominique Perrot, «e considerarlo, attraverso la sacralizzazione della crescita, come sfruttabile all’infinito, significa condannarlo a scomparire; non si può infatti invocare una crescita illimitata e accelerata per tutti e domandare allo stesso tempo un’attenzione per le generazioni future. L’appello alla crescita e la lotta contro la
povertà sono, letteralmente parlando, delle formule magiche così come sono delle parole d’ordine. E’ l’idea magica della torta della quale è sufficiente aumentare le dimensioni per nutrire tutti quanti e che rende “innominabile” la questione della possibile riduzione della porzione di alcuni».
La nostra eccessiva crescita economica supera già di gran lunga la capacità di carico della Terra. Se tutti gli abitanti del mondo consumassero come l’Americano me dio, il limite fisico del pianeta sarebbe di gran lunga superato. Prendendo come indice del «peso» ambientale del nostro modo di vivere «l’impronta» ecologica di quest’ultimo, si ottengono risultati insostenibili
tanto dal punto di vista dell’equità dei diritti di sfruttamento sulla natura, quanto dal punto di vista della capacità di rigenerazione della biosfera. Se si considera il bisogno di materiali e di energia, la superficie necessaria ad assorbire i rifiuti della produzione e del consumo, e se vi si aggiunge l’impatto dell’ habitat e delle infrastrutture necessarie, i ricercatori che lavorano per il World Wide Fund (WWF) hanno calcolato che lo spazio bioproduttivo disponibile sarebbe di 1,8 ettari a testa. Un cittadino degli Stati Uniti consuma in media 9,6 ettari, un Canadese 7,2, un Europeo medio 4,5. Siamo quindi molto lontani dall’uguaglianza planetaria e più ancora da un modello di civilizzazione sostenibile che dovrebbe limitarsi ad 1,4 ettari, ammesso che la popolazione attuale rimanga stabile.

Uscire dall’economicismo
Queste cifre si possono discutere ma sono sfortunatamente confermate da un considerevole numero di indici (che d’altra parte sono serviti a stabilire queste stesse cifre). Per sopravvivere o durare diventa dunque urgente organizzare la decrescita. Quando si è a Roma e ci si deve recare in treno a Torino, se per errore si prende la direzione di Napoli, non basta far rallentare la locomotiva, frenare o addirittura fermarsi, bisogna scendere e prendere un altro treno nella direzione opposta. Per salvare il pianeta e assicurare un futuro accettabile ai nostri figli, non bisogna soltanto moderare le tendenze attuali ma bisogna veramente uscire dallo sviluppo e dall’economicismo, così come bisogna uscire dall’agricoltura produttivista, che ne è parte integrante, per farla finita con le mucche pazze e con le aberrazioni transgeniche.
La decrescita dovrebbe essere organizzata non solamente per preservare l’ambiente, ma anche per restaurare quel minimo di giustizia sociale senza il quale il pianeta è condannato ad esplodere. Sopravvivenza sociale e sopravvivenza biologica appaiono in questo modo strettamente legate. I limiti del “capitale naturale” non pongono solamente un problema di equità intergenerazionale nella condivisione dei beni disponibili, ma un problema di equità tra i membri dell’umanità attualmente viventi.
Decrescita non significa necessariamente un immobilismo conservatore. L’evoluzione e la crescita lenta delle antiche società si integravano in una riproduzione allargata ben distribuita, sempre adattata alle costrizioni della natura. «La società vernacolare è sostenibile perché ha adattato il proprio modo di vivere all’ambiente circostante» conclude Edward Goldsmith,
«mentre la società industriale non può sperare di sopravvivere perché, al contrario, si è sforzata di adattare l’ambiente circostante al proprio modo di vivere». Pianificare la decrescita significa, in altri termini, rinunciare all’immaginario economico, cioè alla credenza che “di più” significhi “meglio”. Il bene e la felicità possono realizzarsi a un minor prezzo. La
saggezza afferma generalmente che la felicità si realizza nella soddisfazione di un numero sapientemente limitato di bisogni. Riscoprire la vera ricchezza nella pienezza delle relazioni sociali conviviali in un mondo sano, può realizzarsi con serenità nella frugalità, nella sobrietà e addirittura in una certa austerità nei consumi materiali. «Una persona felice» nota Hervé
Martin, «non consuma antidepressivi, non consulta psichiatri, non tenta di suicidarsi, non rompe le vetrine dei negozi, non compera ogni giorno oggetti tanto costosi quanto inutili, in breve, non partecipa se non minimamente all’attività economica della società». Una decrescita voluta e ben pensata non impone alcuna limitazione al dispiegarsi dei sentimenti e
nella produzione di una vita festosa e addirittura dionisiaca.
Possiamo concludere con Kate Soper: «Coloro che difendono la causa di un consumo meno materialista sono spesso presentati come degli asceti puritani che cercano di conferire un orientamento più spirituale ai bisogni e ai piaceri. Ma questa visione è sotto diversi aspetti errata. Si potrebbe dire che il consumo moderno non si interessa sufficientemente ai piaceri
della carne, non è abbastanza interessato all’esperienza sensoriale, è troppo ossessionato da tutta una serie di prodotti che filtrano le gratificazioni sensoriali ed erotiche e ce ne allontanano. Una buona parte dei beni che sono considerati essenziali per un livello di vita elevato, svolgono più una funzione anestetica che stimolante l’esperienza sensoriale, sono più avari che generosi in materia di convivialità, di relazioni di buon vicinato, di vita non stressata, di silenzio, di odori, e di bellezza … Un consumo ecologico non implicherebbe né una riduzione del livello di vita, né una conversione di massa verso l’extra- mondanità, ma piuttosto una concezione differente del livello di vita stesso».

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