di Bernardo Severgnini
Nel sistema della concorrenza sfrenata e della competitività a qualsiasi costo, la pandemia non può che produrre la necessità di abbattere il più possibile i costi di produzione. Questo porterà il sistema ad abbassare ancor di più il costo del lavoro e i diritti dei (pochi) lavoratori. Ci troveremo, dunque, in un mondo fatto ancor più di masse sterminate di disoccupati e altrettanto vaste platee di lavoratori sfruttati e spremuti all’inverosimile. Per uscire da questo incubo, è necessario capovolgere radicalmente il concetto stesso di lavoro, e soprattutto operare un provvidenziale e definitivo superamento della logica che ad oggi lega lavoro, reddito, consumo e benessere. Fare politica oggi significa partecipare a una rete, un grande laboratorio che studi le migliori strategie per mettere in pratica questo cambiamento. La marcescente politica dei palazzi, che ci vuole divisi per conservare lo status quo, lasciamola ai loro squallidi talk show
a crisi economica che seguirà a questa pandemia renderà sempre più urgente ripensare al tema del lavoro. Molte aziende falliranno o saranno costrette a chiudere, e questo farà aumentare ancora di più la disoccupazione, fenomeno già in corso e già destinato ad aggravarsi, indipendentemente dalla pandemia, a causa della progressiva automazione della produzione. Nel sistema liberista della concorrenza sfrenata e della competitività a qualsiasi costo, la necessità di abbattere il più possibile i costi di produzione porterà il sistema ad abbassare ancor di più il costo del lavoro e i diritti dei (pochi) lavoratori. Ci troveremo dunque in un mondo fatto di masse sterminate di disoccupati, e altrettanto vaste platee di lavoratori sfruttati e spremuti all’inverosimile.
Per uscire da questo incubo verso il quale sembriamo indirizzati inevitabilmente, è necessario capovolgere radicalmente il concetto stesso di lavoro, e soprattutto operare un provvidenziale e definitivo superamento della logica che ad oggi lega lavoro, reddito, consumo e benessere.
Nella mentalità comune, sin da bambini, siamo abituati a pensare che il lavoro sia quella cosa che permette di avere un reddito, che a sua volta è quella cosa che permette di comprare dei beni, che a loro volta sono quelle cose che, consumandole, garantiscono il benessere. Questo meccanismo, questo modo di pensare, sebbene sia figlio del capitalismo e ad esso sia funzionale, è diffuso anche a sinistra. Ne è pervaso un certo marxismo a corto di idee e ne sono paladini i maggiori sindacati, sempre più adiacenti al potere. Ormai la società occidentale sembra aver rinunciato a mettere in discussione quello che si può considerare un assioma generale del lavoro, e forse il completo smarrimento della sinistra si può spiegare con l’incapacità di elaborare, negli ultimi decenni, un modo di pensare alternativo.
Questa concezione del lavoro è figlia di un modello profondamente individualista, qual è quello configurato dal sistema in cui ci troviamo: ognuno lavora per sé, per guadagnare i soldi per la propria famiglia. Non si lavora dunque per il benessere della società, ma più che altro per il benessere proprio. Ciò determina tre importanti conseguenze:
in primo luogo ci troviamo in eterna competizione col vicino, sgomitiamo continuamente per ottenere un lavoro tutto per noi vincendo la concorrenza degli altri, siamo pronti ad accoltellare alle spalle chiunque si frapponga fra noi e quel lavoro. Ciò ha mortificato le relazioni sociali e il valore della solidarietà.
In secondo luogo, ottenere un “posto di lavoro” ha acquistato una tale importanza che siamo disposti ad accettare qualsiasi condizione e qualsiasi ricatto occupazionale, pur di lavorare. Ciò ha mortificato la dignità dei lavoratori.
In terzo luogo, non ci chiediamo se ciò che stiamo producendo sia utile, buono, sano, rispettoso oppure sia inutile, superfluo, dannoso, distruttivo. L’alienazione del lavoro ha mortificato la creatività umana e il concetto stesso di lavoro. Spesso non ci chiediamo nemmeno quale utilità e quali conseguenze avranno i beni che produciamo attraverso il nostro lavoro. E se anche sappiamo che avranno conseguenze negative, ci giustifichiamo col fatto che bisogna pur lavorare.
La dimensione etica dunque non è all’ordine del giorno nel mondo del lavoro. Essa non è di alcuna importanza per il singolo lavoratore, purchè si lavori e si guadagni la pagnotta. Non è di alcuna importanza per il sindacato, purchè si garantiscano i famosi “posti di lavoro”. E naturalmente, non è di alcuna importanza per l’imprenditore, purchè si facciano profitti. Ma non è di alcuna importanza nemmeno per lo Stato (cioè l’organo che dovrebbe garantire gli interessi della collettività), purchè si generi crescita e aumenti il PIL.
Questo meccanismo, oltre ad aver eroso l’ambiente naturale globale che da qualche decennio ha cominciato a vomitarci addosso i veleni con i quali l’abbiamo contaminato, ha anche diffuso nella mentalità comune un modo di pensare che conferisce al concetto di lavoro una accezione perversa: il lavoro, da sempre considerato secondo logica un dovere, è diventato un diritto. Si è in sostanza capovolto il senso comune, secondo una retorica molto funzionale alle esigenze del profitto e dello sfruttamento del lavoro.
Rovesciare il sistema prima che sia troppo tardi significa per prima cosa, per dirla con le parole di S. Latouche, “de-colonizzare l’immaginario”. Rompere i nessi perversi che il sistema consumistico ha creato tra la dimensione del lavoro e quelle del reddito, del consumo e del benessere, e ricollocare questi concetti nella loro corretta posizione. L’accesso al benessere (al buen vivir) dev’essere, in una società civile, un diritto inalienabile, e non può essere in alcun modo condizionato dal fatto di occupare un “posto di lavoro” e quindi di avere un salario. Emancipiamo la società dal ricatto occupazionale!
Il lavoro, a sua volta, non sia quell’attività alla quale abbiamo “diritto” per mantenere noi stessi come singoli, ma sia il “dovere” civico a cui i singoli siano chiamati per garantire il buen vivir della collettività. Riportiamo nel mondo del lavoro i valori della generosità e della solidarietà, cominciamo a ragionare al plurale!
La rivoluzione del lavoro dovrà consistere necessariamente nella pianificazione delle attività produttive. La collettività dovrà determinare, a partire dalla scala locale, i propri bisogni reali, svincolati dall’individualismo e dall’artificiosità a cui ci ha condotto la società dei consumi. Sulla base dei bisogni reali si organizzerà il lavoro necessario a garantire beni e servizi atti a soddisfare i bisogni collettivi, in modo che ciascun lavoratore contribuisca liberamente e con spirito collaborativo, e non con l’assillo della competitività mossa dalla paura della disoccupazione.
Questa è una via percorribile per cercare di ottenere una società più pacifica, equa e sana. Alcune città del mondo stanno già provando a sperimentare soluzioni che vanno in questa direzione. Fare politica oggi significa partecipare a una rete, un grande laboratorio che studi le migliori strategie per mettere in pratica questo cambiamento. La marcescente politica dei palazzi, che ci vuole divisi per conservare lo status quo, lasciamola ai loro squallidi talk show.
Fonte: Comune-Info