«Non abbiamo dato la preferenza, nella nostra costruzione,
né alla libertà, né all’autorità; né alla maggioranza, né all’unanimità;
né al lavoro, né alla cultura; né all’accentramento, né al decentramento; né
all’esperienza, né al valore; né al particolare, né all’universale; né alla sintesi,
né all’analisi; né alla nazione, né all’individuo; né alla teoria, né alla pratica;
né al territorio, né alla funzione; né alla politica, né alla competenza; ma
accettammo ognuno di questi elementi nel suo valore e nelle sue proporzioni
onde ognuno di questi portasse ad armonia»
Adriano Olivetti
PRESENTAZIONE
di Michele Fasano
Nelle discussioni di questi anni, tenutesi durante il Focus: Adriano Olivetti tra Bologna, Bari e Milano, è emerso come un’episteme differente informasse il modello olivettiano, ragione per cui esso risultò addirittura «non pervenuto» al paradigma riduzionista e gerarchico che intendeva criticare allora le azioni di Adriano Olivetti e che informa tuttora il pensiero contemporaneo, prima ancora che la struttura delle organizzazioni complesse umane che ne derivano.
Il modello olivettiano è d’impianto spirituale nella misura in cui l’attenzione in esso è posta fondamentalmente alla gestione attiva della complessità facendo leva sulla «conoscenza»: su come essa si determina, su come essa agisce e sul modo in cui essa principalmente informa le azioni, le strategie, mission e vision dell’impresa (così come di tutte le organizzazioni umane complesse che possano prenderne l’esempio, fino alla stessa organizzazione dello Stato). Non si tratta di “privatizzare” le istituzioni (meno che mai il welfare), né d’altra parte di “socializzare” i mezzi di produzione, ma di mutare paradigma per «socializzare» sia le conoscenze che «le condizioni strutturali» che ne permettono il sorgere e la libera circolazione, rigenerativa del tessuto ecologico-sociale, effettivamente innovativa, ma in una «continuità di senso» vitale, auto-consistente.
La precomprensione fondamentale era che la conoscenza sorgesse dal basso, emergesse da un brodo di coltura di sinergie orizzontali, che lievitano e germogliano come rampicanti, per giungere a sintesi apicali trans-disciplinari, negoziate in esperienze condivise, imprevedibili a priori (cioè per via teorica/astratta, fatalmente gerarchica e di parte). Come gestire una conoscenza così concepita? Come conciliare «l’emergentismo del sapere», l’indeterminismo e la «non predittivività dell’innovazione» che ne consegue, con l’esigenza operativa de «l’organizzazione scientifica del lavoro»? Eminentemente pragmatica e gerarchica? per cui il sapere non esprime il suo servizio se calato dall’alto? né tuttavia l’organizzazione è efficace se disordinata? attraversata da un’eterogenesi di fini impliciti, non coordinati, non focalizzati verso uno scopo condiviso? Come spesso accade per le questioni del «paradosso» olivettiano, «l’ossimoro» aiuta a mettere almeno in «figura» quel che il «discorso dominante» non sa proferire, restando afasico, incapace di parola a riguardo, se non prima ancora addirittura incapace di percepirne la realtà e la differenza, chiuso nel pattern del proprio schema mentale arcaico.
Un’organizzazione/anarchica era la realtà olivettiana. Non per scelta terminologica di sapore ideologico si sceglie tale dicitura, ma per la presa d’atto obiettiva delle reali dinamiche dello «spirito umano al lavoro», scevro già a monte da pregiudizi condizionanti, in cui le ideologie non dovevano essere né in lotta, né negate (nel mito della loro fine), ma utilizzate per quello che sono: strumenti distinti (con il loro portato di interessi di parte diversi) che devono interagire, dialogare (non lottare)… ma in situazione, in relazione a un valore «terzo» concreto, esplicito: la comunità. Una “dialogica / dialogante” e non meramente procedurale e ipocrita.
Qui la lotta tra conservazione e progresso per Adriano Olivetti e i suoi sodali, una lotta tra mentalità «dialettica» (di destra o di sinistra, ma comunque e di certo conflittuale e astratta), e disposizione «dialogica» (quale “terza via”), che si esprime prima di tutto sul piano «cognitivo», nelle sue declinazioni emergentiste, dunque organizzative, sociali, politiche, spaziali e territoriali concrete.
Qui anche il segreto degli enormi margini di profitto dell’impresa Olivetti di Adriano, nel paradosso cognitivo attuale che decentrare il «target profitto» creasse le migliori condizioni per una sua crescita esponenziale, proprio partendo da «Centralità della Persona Umana e cura del suo territorio». Per «l’impresa/cellula vitale» dell’organismo ecologico-sociale, al contrario di quanto vorrebbe il senso comune, tale «paradigma» si rivela «volano» di innovazione, di esaltazione delle proprie capacità distintive, di produttività, di competitività, piuttosto che oggetto di «rimozione», le cui aspre conseguenze si pretende di scaricare all’esterno del fortino della «impresa/metastasi», della «impresa/predatrice».
A Messina continuerà la riflessione avviata in tale solco (che diviene immediatamente politica, economica, sociale, persino poetica a tratti), a partire da esperienze di imprese reali (micro, piccole, medie e grandi) che operano per riconnettere un tessuto di responsabilità ecologico-sociale vera. Racconteremo e discuteremo di esperienze di uomini e donne che hanno assunto di nuovo il senso di appartenenza a un territorio concreto, tramite il quale accedono ad una nuova Cosmologia, ad un nuovo Umanesimo, fondati su una nuova consapevolezza di relazioni vitali sottili, finalmente visibili, che ci uniscono tutti in una «comunità di destino».